Si sa che i giovanissimi componenti dei Beatles erano entusiasmati dalla musica americana, dal rhythm and blues al rock and roll ai loro ascendenti e derivati: presero le mosse da ciò per sviluppare le loro opere che, dai primi anni Sessanta, cominciarono a sgorgare in Europa come una vigorosa linfa che creerà un’originale musica che a sua volta influenzerà praticamente tutti. E se all’inizio i Beatles erano dei giovani super talentuosi che stavano cercando di affermarsi elaborando un po’ ingenuamente gli esempi americani, solo pochissimi anni anni dopo nell’estate del bollente 1968 dall’alto della posizione massima già raggiunta, pubblicarono uno degli esempi in assoluto più semplici e popolari di elegante summa tra la musica americana e le loro avvenute maturità planetarie: Hey Jude. L’autore principale è Paul McCartney.
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In assoluto il Novecento ha visto la formidabile novità della figura dello strumentista che sale al proscenio “improvvisando” frasi musicali. E l’artista più importante di tutti è stato Louis Armstrong. Al netto di quello che poi nell’immaginario collettivo è divenuto e sedimentato (anche per molti “addetti ai lavori”), ovvero un curioso cantante dalla voce roca che ogni tanto suona la tromba (più precisamente era una cornetta all'inizio), se si vuol capire il solismo moderno bisogna far riferimento a lui.
Fra poco devo uscire di casa e attraversare la città, e cosa comune a chi è nato e cresciuto in una metropoli è la rassegnazione al dispendio di risorse di ogni tipo per l’impresa… E uno dei brani che sin dall’inizio più mi colpirono di Jimi Hendrix fu il brevissimo Crosstown Traffic (contenuto nell’album Electric Ladyland del 1968), senza nemmeno un accenno di assolo di Jimi. Forse mi immedesimai col titolo, sicuramente il suo trascinante andamento mi piacque tantissimo.
Il percorso "teologico" di John Coltrane è un ritorno a un’origine, a una completezza, alla divinità bianca del primordiale rumore cosmico, che contiene tutto, in uno sprigionamento di incredibile energia. Numerose sono le tappe di questa sua corsa verso il primigenio universo, manifeste affabulazioni di un clamoroso incremento di suoni che si affastellano, prima con schemi matematico-geometrici (come in Giant Steps e A Love Supreme), poi sempre più furenti e quasi caotici (Ascension e Interstellar Space). Ma questa sua cosmogonia sonica passa anche attraverso altri tipi di brani, specie di antitesi di questi.
Il terzo disco della Mahavishnu Orchestra, Between Nothingness & Eternity è un disco molto più interessante di quanto potrebbe sembrare: ha alcune singolarità. Quella che salta subito all’occhio è che consta solo di inediti: tre brani (naturalmente piuttosto lunghi). Pertanto non sono inclusi alcuni cavalli di battaglia come quasi sempre accade nei dischi registrati dal vivo. Si potrebbe pregiudizialmente pensare sia un disco un po’ raffazzonato, tanto per pubblicare qualcosa magari per contratto: il gruppo era pervaso da malumori e litigi, infatti, la prima versione della MO ebbe termine proprio con questo album, registrato al Central Park di New York nell'agosto del 1973 e pubblicato in novembre.
Adoro l'autunno, col suo clima e la sua atmosfera di pacatezza, coi suoi colori e fragranze; il ritmo lento delle foglie che si separano dagli alberi per volteggiare al primo soffio di vento, foglie autunnali: Les Feuilles Mortes. Il suono è dolce e malinconico anche in inglese: Autumn Leaves. Una magnitudine attrattiva alla quale non seppi resistere: Autumn Leaves, una tra le canzoni più famose in assoluto, fu tra i primissimi pezzi che imparai, vuoi per il titolo, vuoi perché molto diffusa, vuoi perché alquanto semplice.
I due fattori compositivi più usuali dei brani musicali sono il tema melodico e il Riff. Il tema quasi sempre è sostenuto da successioni tonali di accordi che ne amplificano, di molto, l'efficacia e la caratterizzazione, ed è di poche note alquanto allungate e ripetute, con pause: spesso giunge a misurare 16 battute. Il Riff è un ostinato accordale-melodico in tessitura medio-bassa di un paio di battute che si autosostiene soprattutto in virtù dell’ossessiva ripetizione e che pertanto è quasi sempre modale, ossia non ha una serie di accordi; a volte ha un minimale motivo melodico sovrapposto.
Certe musiche sono dei magnifici vettori catartici, ritualizzano vari tipi di palingenesi tanto potenti quanto transitorie. La stragrande maggioranza delle arcaiche e arcane musiche dei popoli di tutto il mondo hanno caratteristiche base alquanto simili e sono, dal XX secolo (benché create primariamente con suoni di natura elettronica), mutuate da alcuni generi musicali* che apparentemente hanno poco a spartire tra loro: Minimal, Dance ed Heavy Metal hanno con le musiche etniche molti e definenti fattori comuni.
Dopo dodici numeri trascorsi tra Stati Uniti e Inghilterra eccoci sbarcare finalmente in Italia. Per la prima volta, infatti, ci occupiamo di un gruppo di casa nostra, la PFM, forse il più grande, quasi certamente il più celebre al di là dei nostri confini. Per la prima volta, inoltre, l’argomento di un nostro libro è stato scelto dai lettori attraverso un sondaggio sulla pagina Facebook di questa collana. A gran voce, con un risultato pressoché plebiscitario, ci è stato indicato il nome del gruppo milanese (a scapito di Lucio Battisti – ma gli ammiratori del musicista di Poggio Bustone non disperino). Infine, anche la copertina del libro è stata selezionata con lo stesso metodo.
Yellowjackets (=Vespe) è il curioso nome di uno tra i massimi gruppi della Fusion. Il primo nucleo vede il tastierista Russell Ferrante, principale compositore, il chitarrista Robben Ford, il bassista Jimmy Haslip e il batterista Ricky Lawson; poi a rotazione altri bravissimi strumentisti. Misero a segno un formidabile uno-due pugilistico con il loro primo disco omonimo nel 1981 e Mirage A Trois (il loro primo capolavoro del 1983), che l’imposero sulla scena internazionale già come dei moderni punti di riferimento; ebbero un discreto riscontro di pubblico.
Sovente in musica si ha come l’incanto del cerchio. È proprio la netta percezione di semplicità offerta dal seguire senza alcuna difficoltà quell’unico costante tratto della sua perfetta traiettoria nello spazio, che cela ulteriormente il fatto che per le operazioni di calcolo determinanti le sue proporzioni è necessario ricorrere a una particolarissima chiave matematica (π). D'altra parte in tutti i campi l'esplicita complessità diffusamente affascina. Desta interesse, meraviglia; indica sapienza, suscita se non passione perlomeno stima e rispetto. La complessità di per sé segnala competenza in quel dato settore ove si manifesta, propone evoluzione giacché è logicamente atta ad ampliare le potenzialità creative: moltiplica le opportunità di essere originali. Naturalmente anche in musica accade ciò, da Bach a Zappa, dal Progressive al Jazz-rock, da Stravinsky e Schoenberg ai Weather Report e, per arrivare ai giorni nostri, Dream Theater sono tutti artisti e generi che hanno esplicite complessità nei loro brani.
Ho letto di cose musicali sicuramente prima di suonare; per certi versi anche prima di ascoltare. Era intorno alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, io ragazzino, studente delle scuole medie, cominciavo ad appassionarmi di musica. Ne girava tanta, ma non tanta come oggi, solo migliore. Non ero certamente isolato, parecchi adolescenti a quell’epoca ascoltavano con fervore gruppi e musicisti, solo che ben più di altri ero un avidissimo lettore di riviste musicali. Approfittavo del fatto che mia madre lavorava in un’agenzia di servizi stampa, perciò in casa giravano un sacco di pubblicazioni… Continuò per oltre un decennio; le collezionavo, ne ero sommerso. Contemporaneamente avevo iniziato a studiare musica e chitarra.
Da un po’ di tempo dall'editoria nazionale musicale è inviato qualche segnale differente: alcune iniziative di libri sul Rock che vanno oltre la solita aneddotica, spesso agiografica, tentando, giustamente, sintesi sulla musica di questi gruppi e musicisti sulla base di analisi musicali. Serie sintesi, ossia descrizioni e giudizi, non ci possono essere senza accurate analisi (e prospettive storiche). Un libro sui Van Der Graaf Generator e un altro sui Gentle Giant, preferendo quest’ultimo, li consideriamo un buon segnale. Poi ne sono giunti alcuni su uno dei più amati e stimati gruppi in assoluto: i King Crimson. E qui approssimazioni, contraddizioni ed errori in misura esagerata. Un accanimento contro i KC, cerchiamo almeno un minimo di riparare…
Riff, ma quale riff parte seconda, “a volte ritornano”… Nel XX secolo l’ostinazione, quasi l’ossessione industrial-meccanica della reiterazione, si è manifestata in maniera straordinaria e diffusa in ogni attività umana, esacerbando qualsiasi precedente in tal senso. Pertanto anche in musica. L’enorme successo del Bolero di Maurice Ravel e O Fortuna (Carmina Burana) di Carl Orff, quasi cent’anni fa, stanno lì a dimostrare una via apertissima. Anche prima c’erano gli ostinati, ma non in modo così strutturale, grandioso, spettacolare. In seguito, negli anni Sessanta, c’è stata la musica minimale, elettronica e non, che generava un organismo musicale con una forma autoreplicante con minime variazioni, ipnotica, un po’ come le decorazioni islamiche a pattern geometrici.
Nel Rock di solito si riesce con poco a fare molto. E di là di alcune articolate e difficili composizioni suonate benissimo, è affascinante quando alcuni rocker con pochissima materia musicale, similarmente ai jazzisti (che suonino Fusion o altro), riescono a generare musica interessante. E due gruppi in particolare si sono distinti ai massimi livelli in ciò: Pink Floyd e King Crimson. Il primo in un ambito di meravigliosa suggestione, oscillando tra canzoni da falò e incanti estesi e magmatici: musiche che sembrano facili da realizzare ma in realtà alquanto complicate… L’altro in un ambito quasi opposto, ossia di nobilitare a somme altezze sostanze che in nuce sono alquanto plebee, sofisticandole in maniera così straordinaria che esternamente sembrano musiche complesse nell’essenza.
L’eccentrico, lo strumentista e il “leggero”; l’esperto, il frontman e l’inglese. David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash. Un triangolo strano, un rischioso accostamento di individualità (i brani sono in sostanza tutti firmati singolarmente) che appena dopo trovò un quarto lato (Neil Young) senza perdersi, anzi, un ulteriore punto che sarà cardinale per ampliare gli orizzonti del loro già principesco Rock.
Negli anni Sessanta del secolo scorso è nato il Rock, e sul finire di quel decennio già voleva diventare grande. L’elemento di sviluppo strutturale più importante fu quello di progredire mediante l’alterazione della forma canzone, ovvero, in fase compositiva, di accumulare un più grande numero di sezioni rispetto al paio di ossatura che erano di norma presenti nei brani e che ciclicamente, e quindi in maniera continua, erano esposte (con un’introduzione e un finale sovente in sfumando); anche quelli del Jazz e dintorni avevano questo semplice assetto.
“Il silenzio comincia ad assumere un corpo, a diventare una cosa.” Così il poeta, ma a ben ascoltare In A Silent Way di Miles Davis, la sua via non è poi così silenziosa, anzi… È trascorso più di mezzo secolo e questo celebre disco ancora ci interroga. Ci interroga ancora forse perché, seppur diffusamente considerato un capolavoro, la letteratura relativamente a esso scarseggia.
Sollecitato dalla domanda di un lettore a proposito della "faccenda controversa del brano In a Silent Way di Zawinul, registrato da Davis e dopo un paio di anni rifatto da Zawinul stesso, anche perché sembra fosse insoddisfatto della versione di Miles: le due versioni si somigliano o no?" Domanda pertinente: diffusamente (anche nella pubblicistica più attenta) si ritiene che le due versioni si somiglino; se così fosse Zawinul ci avrebbe ripensato nel considerare la versione di Miles insoddisfacente…
Si sa, nel nostro Belpaese vige spesso il bel tempo e la leggerezza del vivere: sole, cieli azzurri, calore… E chissà se è un caso che le due canzoni italiane più famose nel mondo sono quella di Domenico Modugno Nel Blu dipinto di Blu (Volare) e quella di Bruno Martino (poi chiamata) Estate. In particolare quest’ultima, pubblicata nel 1960, è stata ripresa anche nel mondo jazzistico; infatti, seppur semplice, si presta a essere interpretata quindi plasmata giacché ci sono vari settori di flessibilità armonico-melodica che stimolano gli improvvisatori.
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Carlo Pasceri
Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore. TEORIA MUSICALE
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Maggio 2024
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